HELAMBU E LANGTANG: IN TREKKING SULL’HIMALAYA.
Ho conosciuto virtualmente Andrea Pregel, un ragazzo che sta facendo un’esperienza di lavoro in Nepal, ho letto il suo blog, kathmandiario.blogspot.com sono affascinata da come scrive, da come racconta la sua vita e gli ho chiesto di raccontarci il suo trekking di 12 giorni nella valle di Kathmandu, per ispirarci e farci conoscere un po’ della sua vita:
Credo che camminare in montagna sia uno degli strumenti migliori per riavvicinarsi a se stessi e al mondo, per riprendere contatto con la propria natura, per ossigenare la mente e il corpo. Dopo diversi mesi a Kathmandu, avvertivo la necessità di prendere una pausa dal caos del traffico cittadino, dagli incessanti clacson, dalla polvere e dallo smog. E ho scelto di realizzare un piccolo sogno d’infanzia: calpestare con i piedi il suolo eterno e imponente delle montagne dell‘Himalaya. Nelle fresche giornate autunnali, di prima mattina, quando c’è un filo di vento e l’aria è ancora limpida, è possibile vedere anche dalla città le vette imbiancate delle più alte montagne della Terra. Ma è solo trovandosi all’inizio di quei sentieri, ai piedi dei giganti, che si iniziano ad avvertire la silenziosa bellezza e la maestosità prorompente di questi incredibili prodigi della natura.
L’Himalaya altro non è che il frutto di una collisione tettonica avvenuta decine di milioni di anni fa tra la placca indiana e il blocco continentale asiatico. Oggi, più di cento vette superano i 7.000 m sul livello del mare, mentre diciassette superano gli 8.000 m e nove di queste si trovano in territorio nepalese. Trovare un sentiero montano, quindi, non è un’impresa difficile in Nepal. Il periodo che va dalla fine di settembre alla fine di novembre è sicuramente il migliore per intraprendere un trekking in queste regioni. Il monsone è ormai alle spalle e il freddo deve ancora fare capolino. La stagione primaverile è altrettanto favorevole: il freddo è un ricordo e le piogge non hanno ancora iniziato a sgretolare i sentieri. Esistono migliaia di tracciati da seguire e i due più famosi (e più affollati) sono i trekking ai campi base dell‘Everest e dell’Annapurna.
Nell’ottica di stare il più possibile a contatto con la natura, evitando carovane di trekker e turisti occidentali, ho scelto un percorso di dodici giorni nelle regioni himalayane dell’Helambu e del Parco Nazionale del Langtang. Partendo da Sundarijal, a nord di Kathmandu, ho attraversato la Shivapuri Watershed & Wildlife Reserve, una delle principali riserve d’acqua della città, e ho raggiunto Mangengoth a oltre 3.000 m di altitudine. A Tharepati ho preso una lunga deviazione verso est fino a Tarkeghyang, il più grande centro abitato dell’Helambu. Ho interamente dedicato la quinta stupenda tappa ai 3.771 m dello Yangri Peak, mentre il giorno successivo ho fatto ritorno verso ovest, riallacciandomi al tracciato principale e raggiungendo il villaggio di Ghopte. La settima giornata è stata una delle più impegnative sulla tabella di marcia: dopo aver superato Phedi, ho valicato il passo di Laurebina a 4.610 m e sono ridisceso verso i sacri laghi di Gosaikunda, a quota 4.380 m. Una bellissima leggenda racconta che Lord Shiva bevve in un gesto estremo di sacrificio il pericolosissimo veleno Halahala, ma la dea Parvati venne in suo soccorso premendogli il collo per evitare che il veleno raggiungesse il suo stomaco, dove sempre secondo la leggenda era contenuto l’intero universo. Quando, tuttavia, il bruciore del veleno divenne insopportabile, Shiva conficcò il suo tridente nel terreno in cerca di acqua fresca, formando così i laghi di Gosaikunda. Con il termometro sotto zero e la diminuzione d’ossigeno nell’aria mi sono concesso una giornata di puro relax, per recuperare le forze e prepararmi mentalmente alla sfida del giorno seguente: la vetta del Surya Peak. È qui che dopo una ripida e faticosa scalata ho raggiunto il punto più alto del mio trekking, a quota 5.145 m! Da lassù la visuale spazia a 360°, offrendo panoramiche mozzafiato su alcune delle più alte cime himalayane: il Langtang Lirung, le vette innevate del Tibet, la catena del Ganesh Himāl, fino al Manaslu (8.163 m) e all’Annapurna I (8.091 m). Le successive tappe sono state semplici e rilassanti: Shin Gompa, Syabru Besi e otto ore sul tetto di un bus, tra tornanti, crepacci e curve a gomito su strada sterrata, fino al rientro nella quotidiana quiete caotica di Kathmandu.
Questa avventura mi ha regalato emozioni immense. Lungo il mio sentiero ho annusato i profumi dolcissimi delle coltivazioni a terrazza, ho ammirato i colori vivaci delle vallate nepalesi, sono stato stregato dai suoni ancestrali della natura. Ho oltrepassato foreste incantate, pareti aride e surreali, ho superato passi montani tempestati dal vento e dalla neve. Ho camminato sull’orlo di dirupi profondi migliaia di metri, osservando estasiato le nuvole galleggiare morbidamente sotto i miei piedi. E ho attraversato numerosi villaggi. Incontrare uomini, donne e bambini con le facce bruciate dal sole, persone che vivono tutto l’anno in baracche di legno ad altitudini proibitive, esposte al freddo e agli agenti atmosferici, è stata un’esperienza emotivamente potente. L’umanità che ho incontrato sulla mia strada e i sorrisi di quella gente semplice e tenace rimarranno impressi dentro di me per il resto della mia vita. Camminare sui sentieri dell’Himalaya offre l’opportunità di rintracciare il Nepal più autentico, di trovarsi oltre i 4.000 m vestiti di tutto punto, con scarponi pesanti e abbigliamento tecnico, e di incontrare sullo stesso sentiero gruppi di portatori vestiti di stracci che si inerpicano lentamente, caricandosi sulla schiena pesi inimmaginabili, calzando unicamente un paio di ciabatte o di scarpe leggere.
Le lunghe giornate e le fredde notti sull’Himalaya hanno rappresentato per me una riappropriazione dell’io e un rinnovato senso di comunione con l’universo. Passo dopo passo, ho acquisito energia e mi sono lasciato travolgere dalla bellezza nel suo significato più intimo e puro.
Nella cultura aborigena australiana i giovani membri della comunità devono intraprendere un lungo cammino negli immensi spazi dell’outback, in un rito che simboleggia il passaggio all’età adulta. È un percorso a ritroso sulle tracce degli antenati totemici, esseri soprannaturali che nel “Tempo del Sogno” crearono ogni forma di vita attraverso la parola, il canto, la danza e il cammino. Ripercorrere le “Vie dei Canti” è lo strumento che gli aborigeni utilizzano per cogliere e riscoprire l’armonia segreta che li lega alla natura. Parallelamente, in ogni luogo, ad ogni latitudine – in Australia, in Nepal, in Italia –, camminare equivale a crescere. Il cammino è vita: insegna a muoversi con lentezza, a puntare alla propria meta senza perdere di vista la strada, ad assaporare ogni singola goccia di sudore. Camminare significa ritrovare se stessi e scoprire il mondo, facendo tesoro di ogni sguardo, di ogni volto, di ogni sorriso e degli orizzonti che risplendono dietro ogni curva del nostro sentiero.
«La regola secondo me è: quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. È più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c’è più speranza» Tiziano Terzani