Chiara il Grand Canyon ti rende piccolo
[box style=’info’] Chiara Cerigato: Il mio viaggio è partito da Phoenix, passando per Flagstaff e Sedona, giungendo all’agognato Grand Canyon National Park. Il mio amore per gli opposti mi ha poi fatto volare a Miami, dove ho trascorso gli ultimi 5 dei 24 giorni in USA. Da sola, ma mai infelice, conoscendo tantissime storie diverse dalla mia, ospitata da sei couchsurfers che mi hanno raccontato le loro. Torno a Ferrara, Emilia Romagna, con un nuovo sorriso.[/box]
“Seduta su una roccia di fronte al sole che già comincia a coprirsi – maledetta me che ho scelto il Canyon nella stagione dei monsoni – aspetto l’orario di apertura della watchtower che costituisce l’unica attrazione di Desert View. Non so che ore siano. Il mio cellulare è morto due giorni fa, ma non ho modo di ricaricarlo: non ci sono prese di corrente al campeggio. Non voglio nemmeno chiedere l’ora, non mi va.
Rimarrò qui, circondata da parole incomprensibili fra giapponese, russo, indiano…e aspetterò. Non mi pesa neanche più aspettare, è diventato parte di me.
Davanti a me miglia e miglia di conformazioni rocciose, di disegni capricciosi della Natura. Mi sento così piccola, così inerme.
Il cuore prende a batterti forte quando ti avvicini per la prima volta a uno dei tanti punti da cui è possibile ammirare il Grand Canyon e ogni passo verso il ciglio è un rimpicciolimento della tua persona, fino a perderti in un punticino in preda a un’estatica contemplazione. I parenti guarderanno le centinaia di foto che con estrema perizia avrai scattato in ogni angolazione possibile, con decine di luci differenti e tutta la pazienza che conosci, ma non capiranno mai cosa voglia dire. Non assaporeranno neanche un quinto di quella sensazione che ti assale puntando gli occhi al Colorado River, lontano e timido da farsi vedere solo in piccole porzioni.
Sono qui, avvolta dal profumo dei ginepri e dal rumore dei pini scossi dalle enormi corna delle alci, da una settimana ormai. Un’altra settimana di volontariato mi rimane, fra piante invasive da estirpare, semi di native da piantare, sentieri da mantenere puliti. Fra sveglie alle cinque e mezza, con la luce del primo sole, e cena alle sei del pomeriggio: alle nove coricata sotto un cielo che non pensavo potesse rivelare così tante stelle. Le so riconoscere numerose qui, a ottomila kilometri di distanza dalla mia città dove orgogliosamente additavo Vega agli amici, unica riconoscibile.
Si chiedono se mi manchino. L’ultimo messaggio che sono riuscita a leggere prima che il cellulare mi abbandonasse e che è riuscito ad arrivarmi per una strana concessione della connessione wifi così scarsa me lo chiedeva. Mancare è complicato. So che vedrò tutti relativamente presto, so che dopo i primi giorni di riavvicinamento, che fanno emergere solo i lati positivi delle relazioni che hai con le persone sempre vicine, riemergeranno anche le insofferenze e le incomprensioni. Manca una persona per la quale sai di non poter più cambiare opinione, della quale hai un’immagine finale che non può più essere modificata: una frase sbagliata che si rivela l’ultima, una porta sbattuta dopo un “è troppo tardi”, un ciao amareggiato che ha il valore di un addio. Qui non mi manca nulla.
Gli sguardi diventano sorpresi quando “Sola” rispondo alla domanda così frequente: “Con chi viaggi?”. Anche alla dogana. Non è una punizione, non è una sofferenza: è la mia scelta. Perché nessuno si accorge che un viaggio intrapreso da soli è un viaggio incredibilmente affollato, fra le proprie voci, i propri pensieri e le proprie personalità che spesso non ascoltiamo a dovere.
Io viaggio da sola, d’accordo, ma ho tutte le mie diverse me a farmi compagnia.” (scritto il 01-09-2013)
E’ ufficialmente finito il viaggio. Γνῶθι σεαυτόν era uno dei comandamenti delfici: l’ho scritto a penna sul mio polso sinistro venerdì mattina, guardando di fronte a me l’oceano Atlantico regalare sorrisi a decine di coppie con le loro macchine fotografiche. Io ero da sola, la schiena appoggiata al fusto di una palma di Bayside Park, i piedi doloranti puntati verso il blu del mare.
La scritta sul polso non è durata che poche ore, lavata via dall’acqua cristallina, ma resta comunque la sua copia incisa dentro alla mia testa da quando so il significato di quella sentenza, breve e incisiva come i Greci prediligevano.
“And do you know yourself?” mi chiede Juan, il mio couchsurfer, credendola un vero e proprio tatuaggio. Un pochino più di prima se non altro. E sono felice, perché è un pochino che vale tantissimo.