Le Ande nel Sangue: La storia della mia Bisnonna e perché le ho attraversate

Francesca Di Pietro Pubblicato il

Ho i capelli ricci, tanti, una massa voluminosa a metà tra l’afro e la medusa, la pelle chiara e le lentiggini, ma sono nata al sud, a Napoli. I miei genitori hanno i tipici tratti mediterranei, capelli nerissimi, pelle olivastra, zigomo alto, e allora da chi ho preso? Ho iniziato ad aprire album di famiglia, a fare domande alle cene di Natale ed eccola lì, Nina! Ha un abito lungo, morbido abbottonato fino al collo, i capelli raccolti, dicono dello stesso colore dei miei, il profilo mi assomiglia, la bocca, la forma degli occhi, il colore della pelle. Nina, la mia bisnonna, nasce intorno al 1890 a Sanremo da una famiglia benestante di farmacisti, ma si capisce subito che non era una donna qualunque, passava le estati a nuotare nei suoi costumi neri, si muoveva in bicicletta, a 15 anni decise di fare la ragazza alla pari in Svizzera per imparare le lingue. Si è diplomata come maestra e poi si è innamorata.

Nina Santiago 1911
Nina Santiago 1911

Francesco, o meglio Chechhin’, era il 1911, lei lo avrebbe seguito fino in capo al mondo, e infatti così è stato. “Dove andare in viaggio di nozze? Beh dicono che le Ande siano belle ci sono dei parenti li”! E così due mesi di nave fino a Buenos Aires e poi in carovana fino a Santiago del Cile. E’ bastato poco per indossare cappelli a falde larghe ed imparare ad andare a cavallo. Quelle montagne così alte hanno ipnotizzato Nina, sembrava che da lassù si potesse toccare il sole con un dito. La luce, accecante ed abbagliante tanto da intontirti, da impossessarsi del tuo corpo. La luce ti obbliga a risalire le Ande, per vedere cosa c’è dopo un altro picco innevato. Cosi Nina e Checchin’ decisero di andare verso Nord, a cavallo, attraversando la Cordillera fino all’Ecuador. Incontrano gli altri parenti, comprano delle terre costruiscono la loro casa, nasce la loro prima figlia Olguita. Un sogno che diventa realtà, ma come tutti i sogni a volte si cade giù dal letto. È l’estate del 1914 in Europa scoppia la Grande Guerra e Checchin’ sente il richiamo della patria, vuole partire per il fronte, chiede a Nina un altro sforzo, due mesi di nave per raggiungere Genova, ma questa volta Nina ha la pancia gonfia, è incinta di Luca.

Nina e Francesco
Nina e Francesco

Checchin parte, Nina l’aspetta, i bambini crescono, non si sa esattamente quanti anni abbiano, perché sono stati registrati in momenti diversi dalla loro reale nascita. Passano sei anni e nasce il terzo figlio: Angela, o come l’hanno sempre chiamata tutti Bebi, mia nonna. Anche lei era una donna speciale, con un sorriso bianchissimo, i denti leggermente accavallati e gli occhi vedi, ma un verde scuro, verde loden come le dicevo io. Una grande famiglia felice, la loro ricchezza e la loro forza era l’amore e il rispetto per l’altro. Crescere in un contesto così ti apre la mente, la generosità non è un insegnamento è parte del tuo sangue. E così un’altra volta la guerra scuote questa famiglia e la separa per sempre.

Nina, Luca, Olga 1916
Nina, Luca, Olga 1916

E’ la seconda guerra mondiale e le truppe del sud salgono per combattere al fronte, è l’8 di settembre i soldati sono sconvolti, scappano da quelli che fino al giorno prima erano i loro alleati. Alfonso è molto magro, occhi intensi, la schiena sempre dritta, Bebi lo aiuta, lo porta in casa, lo accoglie nella grande famiglia, anche lui si rifugia nei racconti di Nina, nel suo amore senza confine. Ci sono incontri che per quanto brevi ti cambiano la vita, ti modificano nel profondo, anche se non sai esattamente il perché, anche mia nonna da quel momento in poi non sarà più la stessa. Alfonso viene arrestato come prigioniero politico, Bebi è partigiana rischia la sua vita per amore, per liberarlo e per proteggerlo dove il male non poteva arrivare. Dopo mesi la guerra finisce, finalmente Bebi ed Alfonso si possono sposare, ma il prezzo da pagare è alto, lasciare tutto, per un uomo! Nel 1945 viaggiare 1000km su un carretto verso un sud sconosciuto, dove non si sa cosa ti aspetta, vivendo per caserme invece che nella grande casa di Nina. Bebi parte, senza mai guardarsi indietro, ma come si fa a rinunciare a qualcosa che ti ha reso quello che sei?

I miei nonni 1945
I miei nonni 1945

È la notte del 29 giugno del 1980: “quando sei nata tu, mi hai salvato la vita!” “nonna cosa vuoi dire, perché?” purtroppo ho scoperto il motivo, quando era troppo tardi, quando non avrei mai potuto abbracciala! Avevo un anno quando sono partita la prima volta da sola con lei, il 1 di luglio, dopo il mio compleanno, io e nonna sole, nella grande casa si Nina, in un mondo fermo ad anni prima, senza televisione, con i mobili di famiglia, i graffi dei gatti della sua infanzia sui tavoli. Cosa si fa per 3 mesi da soli con la nonna? Si ascoltano le storie. Tutto quello che era della sua famiglia non c’è più, non c’era più neanche quando era viva, sono morti quasi tutti prima del tempo, la guerra ha mangiato le loro ricchezze, i partenti hanno rubato i loro averi, eppure le storie non le ha potute cancellare nessuno. “Guarda lo spettacolo, mettiti in piedi sulla poltrona, non posso prenderti in braccio, mi fanno male le gambe.” Lo spettacolo, il faro del Porto Sole che gira a ritmo costante dalla mia finestra, anzi dalla nostra, quella mia e della nonna, quella che “se ti metti dritta qui guardi la luna dal letto”. Quante ore si può osservare un faro dalla finestra? Tutto il tempo che Lei ti accarezza la schiena. Quanto tempo può mancarti qualcuno dopo che se ne è andato? Tutta la vita!

Raccontare le storie dei luoghi mi avvicina a Lei, raccontare i nostri luoghi o solo fare gli stessi rituali ogni volta che mi trovo nella nostra casa.

Io a 5 anni
Io a 5 anni

Si dice che alcune esperienze cambino il DNA e forse oltre al gene dei capelli rossi, Nina mi ha trasmesso il suo amore per quelle vette imbiancate.

Dopo esattamente 100 anni a febbraio del 2011 ho iniziato il mio lungo viaggio sulle Ande, le ho percorse tutte da Ushuaia, Argentina a Punta Gallina, Colombia, un sogno durato 7 mesi e mezzo in quattro viaggi.

Ho iniziato dalla Fine del Mondo, Ushuaia, o forse da dove inizia, da dove la terra sorge dai ghiacci e prende vita, dove le piante non esistono e l’acqua si trasforma per stupirti ogni giorno. Terra del fuoco, dove finisce la Ruta 3, la Caretera Austral, dove il mondo è a testa in giù, dove in estate le giornate non finiscono mai e gli animali giocano tutta la notte.

Francesca Di Pietro Psico-viaggiatrice
Autore ed ideatore di ViaggiaredaSoli

In inverno la neve e il freddo fanno dormire ogni cosa e lo stato paga gli uomini per popolare questa terra crudele. Ad Ushuaia ci sono solo 3 punti cardinali, il Sud non esiste perché tu sei il Sud!

Era facile capire dove sarei andata, in direzione Nord, dritta davanti a me. In Argentina le distanze si contano in giorni di viaggio, si dice che attraversare la Ruta 40, la strada per raggiungere il Nord, sia esso stesso il viaggio. È difficile descrivere come un paesaggio tanto monotono possa ipnotizzarti, forse è colpa degli spazi, dell’orizzonte, non si sposta mai.

Il vento soffia basso tanto da non far crescere gli alberi, è solo campo, ganado, come dicono laggiù e le centinaia di pecore e di mucche ti ricordano il passaggio degli europei.

Mi fermo ancora, c’è un lago, un lago che sembra mare, dove il ghiaccio urla, è il Lago Argentino, ogni sua riva racconta i traguardi di un esploratore, Glaciar Upsala Onelli, Glacial Spegazzini, Glaciar Perito Moreno, uomini, famiglie anni di vita interamente dedicate ai ghiacci.

Detto da qui giù, dall’Europa, sembra stupido e senza senso, ma quando sei su una barca circondato da iceberg blu intenso e una parete di 60 metri ti appare davanti, una parete viva, che si rompe continuamente e ti parla, il cuore ti si ferma per un istante e il vento gelido ha difficoltà ad entrare nei tuoi polmoni.

Guardando tutto questo, l’unica cosa che riesci a pensare è alla sensazione che avranno provato quegli esploratori più di 100 anni fa, cosa può pensare un uomo dopo che ha affrontato mesi di nave, settimane di viaggio nella pampa soffrendo il freddo, vedendo morire i suoi uomini e poi, il tempo e lo spazio si fermano, sei il primo uomo bianco a vedere questa immensa parete di ghiaccio che da oggi in poi porterà il tuo nome, non è forse questo il senso della vita?

Io in Patagonia
Io in Patagonia

La Patagonia è un luogo da osservare in silenzio, è un luogo dove nessuno può comprendere o capire quello che ti passa per la testa, perché è in ogni momento diverso da prima, forse è per questo che i grandi viaggiatori ci sono andati da soli. In Patagonia la Cordillera ti parla, il Fitz Roy e il Cerro Torre hanno un dialogo continuo mentre tu li osservi dalla strada e il cielo si tinge di un rosa purissimo al tramonto e l’unica cosa che coronerà questo attimo è un cordero asado. In Argentina le montagne sono talmente belle che gli uomini non possono smettere di guardarle è per questo che hanno inventato l’asado; anche se fa quasi sempre freddissimo, hanno trovato la scusa per profumare l’aria, per rendere quest’esperienza multisensoriale, gli occhi sono pieni d’amore, le orecchie ascoltano il vento che parla e la pelle del tuo volto gli risponde perché baciata da esso, e così il naso non può che riempirsi di questo odore di ghiande bagnate misto a carne alla brace.

L’essere umano ha disegnato dei confini, dall’altra parte del monte si chiama Cile e così si fa avanti ed indietro più volte risalendo le Ande, perché non si conosce mai una montagna se non si sono viste entrambe le sue facce. Il Parco delle Torri del Paine, uno dei posti più belli che abbia mai visto nella mia vita, non pensavo che l’immaginario della spiaggia di sassolini bianchi potesse essere applicabile anche così vicino al Polo Sud. Tre montagne altissime di puro granito che spuntano con arroganza da una catena montuosa molto aristocratica, il Macizo Admirante Nieto e alla sua base lagune irregolari di un blu intenso. Interi ettari di conifere, fiumi meravigliosi, contornati di mangrovie, da poter risalire contro corrente come i salmoni. Il paradiso dello sport di montagna, ma anche semplicemente un paradiso.

Puerto Natales Cile
Puerto Natales Cile

Gli abitanti della Patagonia hanno una caratteristica molto peculiare, hanno gli occhi gialli, un taglio un intensità che si trova solo al sud del mondo. Dopo la seconda guerra mondiale molti tedeschi sono scappati in queste terre inospitali e la mescla con gli indios ha creato capolavori belli quanto le loro montagne. Puerto Natales, chiamato da molti el fiordo de Ultima Esperanza, chi ci arriva capisce a cosa si deve questo nome. È il punto più meridionale della Patagonia cilena, sullo stretto di Magellano una costa talmente rotta e frantumata che ancora si fa difficoltà a capire come siano riusciti ad attraversarlo senza l’ausilio di apparecchiature di navigazione. Lì il vento soffia talmente forte che ti toglie proprio tutte le speranze, si risalgono i fiordi con una nave e se il tuo corpo è talmente forte da resistere al freddo e al vento puoi guardare i ghiacciai che si rompono direttamente in mare!

Il Cile è un paese tanto lungo quanto la distanza che c’è tra il ghiaccio e il deserto, ed infatti al suo estremo Nord c’è proprio un deserto, quello più arido del mondo: Il Deserto di Atacama.

Atacama, valle della muerte, valle de la luna, gli uomini hanno finito gli aggettivi per descrivere questa terra. Il cielo più limpido del mondo, per riempire una tazzina di caffè di pioggia ci vogliono mille anni, si vedono tutte le stelle dell’universo solo alzando lo sguardo, le lanterne non servono, di notte il cielo illumina la strada. Il sole è così forte che quando passi all’ombra hai bisogno di coprirti, la luce ad Atacama è come un’aurea sacra che ti illumina il cammino, che ti protegge dall’altitudine dal freddo dei suoi 4000 metri.

Anche lì, nel deserto, l’uomo ha costruito un confine, quello con una terra infame, una terra dove la povertà rasenta il limite della dignità, dove gli europei hanno deciso di rubare tutto ciò che brillava, tranne il loro grande sole: la Bolivia.

Le lagune della Bolivia fanno da specchio ai vulcani, sono del colore della natura, verde, bianca, azzurra, colorada, man mano che vai avanti le Ande si fanno sempre più ripide e il respiro più affannato, fino a culminare in un deserto bianco, dove non c’è prospettiva, dove l’orizzonte ti inganna e gli occhi non riescono a restare aperti: Uyuni.

Cerro Rico Potosì Bolibia
Cerro Rico Potosì Bolibia

Viaggiare in Bolivia non è solo godere di grandi panorami; quello che la rende unica è la gente, quella che c’è e soprattutto quella che c’era. La Bolivia il cuore del viceregno spagnolo, Potosì la città d’argento, dove per soddisfare i reali desideri di vanità, gli spagnoli hanno fatto morire più di 3 milioni di indios nelle miniere. La morte, l’argento, ha contaminato anche l’architettura. Le chiese degli indios danno le spalle al Cerro Rico in modo che pregando le persone non possano vedere il luogo dove moriranno; e quelle degli europei sono interamente coperte d’argento zecchino e si rivolgono al Cerro, per omaggio verso una montagna che gli ha regalato così tanta fortuna.

Cholitas, piccole signore con la bombetta e le trecce, tutti le fotografano perché indossano un “costume tradizionale” pochi sanno la verità. Il costume come la maggior parte delle tradizioni rimaste, non è tradizionale è imposto con la forza e con la violenza dagli spagnoli nel 1600 per rendere i propri schiavi più presentabili, eppure loro ti guardano sempre con gli occhi pieni d’amore, e ti sussurrano “mami” prima di rivolgersi a te, ma senza mai guardarti fisso, perché non è educato.

Bolivia, Ande, Perù, coca, un legame indissolubile oggi demonizzato. Per centinaia di anni queste piccole persone dal sangue scuro hanno masticato coca, per sopravvivere, per affrontare dove i loro dei hanno deciso di farli vivere. Camminare sulle montagne con solo una coperta addosso, costruire immensi palazzi di roccia a mano, trasportandoli a spalla perché i lama sono troppo pigri per lavorare! Questo ha avvicinato la coca agli dei, perché forse la coca è l’unico regalo che gli dei hanno fatto ai popoli andini: la coca e il sole.

Io a Sucre Bolivia
Io a Sucre Bolivia

Il sole delle Ande è unico, è diverso da ogni altra latitudine, solo sulle Ande puoi passeggiare su un lago a 3800mslm e sentirti per un attimo nel sud della Francia.

Flauto di pan, percussioni, vestimenti larghi, terrazzamenti circolari: Perù come sbagliarsi.

In Perù l’opulenza barocca delle chiese spagnole si è mischiata alla razionalità degli ingegneri Inca. Oro, argento, rame, ogni metallo per omaggiare un dio diverso, ogni metallo una morte diversa per depredare questo popolo ancora così primitivo. Nessuno si è mai soffermato sul valore intrinseco degli oggetti, per un popolo nato e insediato così in alto, così lontano dal mare, così lontano da tutto, per il quale le distanze si misuravano in giorni di cammino, il metallo più prezioso non era l’oro era lo spondilus. Spondilus, una conchiglia oceanica a valva, tipo ostrica, dalle sfumature dall’arancio al violetto, per noi niente di particolare, per loro il simbolo della cosa più lontana e desiderata: il mare.

Viaggiare in terre così lontane, dormire con loro, mangiare a casa loro, ti insegna a dare una nuova lettura alle cose, una nuova prospettiva ai valori, a non sottovalutare mai le tue comodità o quello che in Europa tutti disprezzano.

È bizzarro pensare che più in alto vai più la latitudine si abbassa ma l’altitudine rimane sempre la stessa. Eccomi qui, latitudine 0, la midad del mundo: Ecuador.

Sui paesi di cui si parla poco si hanno basse aspettative, pensi che dopo tutto siano uguali ai loro vicini, senza una reale individualità. Per fortuna nei viaggi e nella vita non mi fermo ai pregiudizi o ai consigli degli altri, devo sempre tastare con mano.

mercati dell'Ecuador
mercati dell’Ecuador

La cosa che mi ha colpito di più degli Ecuadoriani? La lucentezza dei loro capelli, una lucentezza che si sprigiona anche negli occhi. Sono un popolo latino, perché vivono all’equatore, ma andino perché vivono in altitudine e questo li ha resi unici, speciali, forse i miei preferiti.

I colori dei vestiti non cambiano mai superati i 3000 mslm, come anche il loro cibo, il mais la fa sempre da padrone, ma lo spirito diventa più caldo, la voglia di divertirsi, la convivialità con lo straniero, ti fanno sentire a casa, ti fanno pensare, forse solo per un momento, che non sarebbe tanto male vivere insieme a loro. Ma in questo viaggio non avevo tempo per restare, dovevo proseguire verso la mia unica direzione: il Nord.

E così dopo 4 giorni di trasporti pubblici in perenne ritardo, scomodi, sporchi, freddi sono arrivata in Colombia, mille paesi in un unico stato. La Colombia è peggio dell’Italia, c’è una differenza enorme tra nord e sud, i popoli sono talmente diversi che anche il colore della loro pelle cambia.

Il denominatore comune della Colombia è uno: la cocaina. Ma non come la si immagina dall’Europa, non è un susseguirsi di bar con salsa ad alto volume dove provocanti signorine ti offrono la polverina bianca a prezzi accessibili, o meglio, non solo; questa è una realtà relativa solamente alla costa.

La cocaina è nella vita della gente. Uscite, accomodatevi ad un bar di Medellin, parlate con i produttori di caffè di Manizales e loro vi racconteranno di un tempo in cui il patròn si chiamava Pablo, dove la vita di tutti poteva essere distrutta in un secondo, dove gli edifici venivano fatti saltare in aria, le macchine bruciate e chi cercava di reagire veniva fatto a pezzi…letteralmente. “Hanno ammazzato tutta la classe dirigente” , mi ha detto un ragazzo che mi ha ospitato a Medellin, “tutti i pensatori, i professori universitari, i giornalisti ora non ci sono più”, cosa c’è di più triste che un paese senza pensatori? Eppure loro ce la stanno facendo, passo dopo passo, anno dopo anno, stanno risalendo dall’orrore, dal terrore e stanno facendo innamorare tutti i turisti di questa terra così ricca. Le Ande la lambiscono di lato, come un mare leggero, sono dolci, non troppo alte, permettono di mitigare il clima, di far crescere il caffè, di coltivare i fori più belli del mondo. Le Ande finiscono ancora una volta in una terra di nessuno, al confine con il Venezuela dove il lecito e l’illecito si mischiano, dove i confini si corrompono con qualche decina di dollari. La Guajira, la penisola più settentrionale del continente Latino Americano, la terra dei guayu un popolo rude, forse un po’aggressivo, ma si sono mai chiesti perché sono diventati così ostili? Come la maggior parte delle etnie del Latino America sono state derubate di tutte le loro ricchezze, in questo caso il carbone e il sale e lasciate in una terra arida e troppo battuta dal vento. Il confine con il Venezuela ha diviso le loro famiglie, ma non le loro tradizioni, gli accordi internazionali hanno lasciato a loro le frontiere aperte e i guayu si sono vendicati diventando dei grandi contrabbandieri. Si dice che alla Guajira ci siano le donne più belle della Colombia e a parer mio è vero, hanno gli occhi più intensi che abbia mai visto, il loro nero si mischia all’azzurro del cielo ed è così intenso che di mette in soggezione.

io alla Guajira Colombia
io alla Guajira Colombia

Uno dei paesi più a Nord si chiama Nazareth e forse non è un caso, anche loro aspettano un nuovo messia.

Anche io come Nina e Francesco, dopo il mio lungo viaggio sono ritornata in Patria, o forse dovrei dire a casa, quella che ho scelto, non quella in cui sono nata. Più giro il mondo più mi rendo conto che non potrei vivere in nessun altro luogo, che non c’è niente e nessuno che mi emozioni più di lei, del mio grande amore: Roma!

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Psicologa e Viaggiatrice. Giro il Mondo e studio la personalità dei viaggiatori! Ho visitato più di 75 paesi molti dei quali da sola. Per me il viaggio è uno strumento di crescita personale. Ho creato questo sito per tutti quelli che amano viaggiare da soli o che vorrebbero iniziare a farlo. Ho pubblicato: Il Bello di Viaggiare da Soli: guida al travel coaching per ottenere il massimo da noi stessi edito Feltrinelli.

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