Amedeo: Dal Friuli all’Afghanistan in moto

Francesca Di Pietro Pubblicato il

Mi chiamo Amedeo Lovisoni e sono nato sull’Adriatico a Monfalcone classe Novantuno dell’altro secolo, vivo a Cervignano del Friuli e ho vissuto due anni in India per lavoro.

A quattordici anni con la bicicletta, scoprivo il Friuli frugando in ogni angolo di questa terra, dal mare fino alla montagna. Tornavo la notte esausto e bruciacchiato dal sole o grondante di pioggia. Poi ho alzato lo sguardo ed i pedali verso le vette, innamorandomi di valli ombrose e montagne nascoste. Erano le mie Alpi Giulie e Carniche, armoniose e ruvide, non antropizzate, non violentate dal turismo di massa. Alpi di confine tra Slovenia, Austria e Italia.

Poi e arrivò lei… la motocicletta. Eros meccanico: puzza, rombo, chilometri sulle strade dell’India. Le vette del Kashmir, guasti nella notte a quattromila metri di quota su passi stradali sconnessi abituati allo sterco di Yak.

Ho fatto un viaggio andata e ritorno dal Friuli all’Afghanistan in motocicletta cominciato 27 giugno 2017. I racconti, giorno per giorno, si possono trovare sulla pagina Facebook “Back to Frico – Mongol Rally 2018” (il nome è del prossimo viaggio) e sul sito www.backtofrico.it

  1. Come mai l’Afghanistan e come mai in moto?

Ho chiamato il mio viaggio Back to Frico perché, quando l’ho pensato, avevo deciso di tornare in Italia dopo due anni a Bombay per lavoro e l’idea migliore era tornarci in motocicletta. Nella mia testa volevo fare una sorpresa ad una ragazza attraversando tutto lo spazio che ci divideva. La motocicletta rappresenta per me, in special modo la Royal Enfield, uno dei pochi veicoli moderni che permettono viaggi non solo nello spazio ma anche del tempo. Una motocicletta essenziale senza fronzoli o elettronica, incredibilmente facile da riparare e con un look da Lawrence d’Arabia indimenticabile, soprattutto nella colorazione Desert Storm.

Era tutto pronto per la partenza da Bombay, ma il diniego del visto pakistano, essendo residente in India, ha reso impossibile questo sogno. Però oramai era impossibile cancellare questo viaggio dalla mia testa perché troppo a lungo e troppo dettagliatamente avevo studiato i luoghi e la storia dei posti che sarei andato a visitare. Fortunatamente ho trovato anche in Italia la stessa moto prodotta in India per affrontare l’avventura, questa volta andata e ritorno dal Friuli al confine pakistano di Taftan, il valico di confine da cui sarei dovuto entrare in Iran se fossi arrivato dal Pakistan.
La tappa in Afghanistan è stata improvvisata, scelta sul momento quando ho scoperto che a Mashhad, la città più sacra dell’Iran, il consolato Afghano rilasciava i visti con un eccezionale semplicità. La tentazione di vedere il minareto di Jam uno dei due siti Unesco dell’Afghanistan a quel punto è stata irresistibile.

  1. Quanto ci hai messo, raccontaci un po’ il viaggio

85 giorni, 23370km, 1320 litri di benzina, 6 cambi d’olio, 1 copertone e 2 camere d’aria, 1 catena sostituita, 63 gradi raggiunti nel deserto, 13 paesi attraversati, 2 cinquemila metri raggiunti (Ararat e Kazbeg), migliaia di persone incontrate. Questi numeri possono esprimere più di quanto si possa descrivere le avventure che giornalmente si sono poste lungo il cammino. La moto si è rivelata grandiosa, e soprattutto in Iran, dove da dopo la Rivoluzione c’è una legge che impedisce la detenzione per i civili iraniani di motociclette con cilindrata superiore a 150cc, si è rivelata un “passaporto” per entrare in simpatia con chiunque.

  1. Come è la situazione realmente in Afghanistan?

In Afghanistan ci sono rimasto solo tre giorni ma al contempo si sono rivelati eccezionali per comprendere una realtà a molti sconosciuta: gli afghani, se non più degli iraniani, sono una popolazione estremamente gentile. Una gentilezza sconvolgente che impone al viaggiatore il dovere di accettarla. L’unica grande città che ho attraversato è stata Herat, sede tra l’altro di una base militare italiana (da cui sono stato ben alla larga, essendo le installazioni militari e i posti di blocco i luoghi più pericolosi) e tutti quelli che mi riconoscevano come un viaggiatore mi hanno offerto ospitalità nonché da mangiare e da bere. Questo dovrebbe far riflettere su come noi, ben più benestanti di queste persone, trattiamo con sufficienza ciò che riteniamo “diverso”.
Nonostante tutto però le tracce della guerra e di una situazione politica instabile sono ovunque. Posti di blocco lungo le strade, auto e camion abbandonati ai loro lati crivellati di colpi oppure i buchi e i segni delle bombe in alcune moschee.

  1. Come è cambiato il viaggiatore che vuole visitare questo paese dagli anni 70 ad oggi?

Il viaggiatore occidentale che desidera viaggiare in Afghanistan o in alcune aree del Pakistan può vivere questo tipo di avventura in solo due modi: la prima è con prudenza e ciò consiste nel spostarsi solo con mezzi protetti da scorte armate in camionette blindate. Soprattutto chi lavora in industrie e viaggia in Afghanistan per lavoro sceglie questa opzione. Dal mio punto di vista però è estremamente pericolosa, dal momento che proprio per la natura del trasporto e del numero delle persone che sono informate di esso si può essere soggetti ad attendati o peggio a rapimenti.

Il secondo è accettare l’ambiente in cui si vive, documentarsi sulle aree a rischio leggendo i giornali soprattutto in inglese, chiedendo informazioni ai locali sulle condizioni delle strade e la loro sicurezza, senza mai dare informazioni precise sulla propria destinazione.

Da questo punto di vista nonostante l’atmosfera sia completamente cambiata dagli anni 70 quando migliaia di hippie lo attraversavano, viaggiatori folli e con pelo sullo stomaco riusciranno quasi sempre ad attraversare indenni anche l’Afghanistan non dando nell’occhio. Perché proprio questo è il “trucco” migliore: vestire e mangiare come loro, non usare i mezzi pubblici o veicoli privati stravaganti come auto nuovissime o colorate stile Hippietrails. In fin dei conti la mia Royal Enfield, con un paio di tappeti usati recuperati in Iran e il mio turbante è sembrata la soluzione vincente.

  1. Quali sono state le difficoltà di aver attraversato quelle terre in moto?

Devo essere sincero, le uniche difficoltà riscontrate nel viaggio in moto attraverso, soprattutto, Iran e Afghanistan sono stati il caldo furibondo e i dossi per ridurre la velocità. Altissimi, improvvisi che mi hanno obbligato a cambiare molte volte le viti, che li tranciavano con i colpi, dei miei box autocostruiti in metallo. Non posso assicurare che ad altri viaggiatori in moto possano trovare la stessa condizione. La mia moto, per la sua concezione può usare benzina a bassissimi numero di ottani e ho usato olio per macchina rispetto quello specifico da moto. I distributori sono frequenti ovunque (l’Iran produce l’11% del petrolio globale) ma la sua qualità non è molto alta.

Spirito d’avventura e un kit di attrezzi mi hanno tirato fuori in definitiva da qualsiasi soluzione.

  1. Hai mai avuto paura?

Assolutamente si, in 5 situazioni che mi ricorderò tutta la vita.

  • Ad Antiochia di Siria, a 130km da Aleppo, nella notte hanno iniziato a sparare per strada vicino a dove dormivo.
  • Fuori Kobane, la città famosa per essere stata l’epicentro della resistenza all’ISIS, dal lato turco, mi sono avvicinato al confine in una zona interdetta a chiunque. Se la polizia o l’esercito turco mi avessero trovato lì mi avrebbe arrestato senza ripensamenti. Però il desiderio di vedere la collina su cui pochi mesi prima sventolava la bandiera dell’ISIS e fortunatamente rimpiazzata da quella dei combattenti Kurdi era troppo forte.
  • Al ritorno dalla ascesa in solitaria sull’Ararat, finita l’acqua stavo per crollare a causa della disidratazione. Sapevo che nessuno mi avrebbe potuto aiutare fino il paese a valle essendo chiusa l’ascesa ufficiale alla cima più alta della Turchia.
  • Quando vicino al confine con l’Iraq in Iran, luogo che avevo raggiunto per vedere la Ziggurat di Choqua Zambil e il sistema idrico di epoca romana a Shushtar le temperature hanno raggiunto i 63 gradi all’ombra e viaggiare in motocicletta si è rivelato un inferno. Forse l’unica occasione in cui avrei voluto davvero morire.
  • In Cecenia, sulla via del ritorno quando sono stato fermato più volte dalla polizia e dall’esercito Russo perché cercavo di oltrepassare una zona (che non sapevo) fosse interdetta. Al terzo posto di blocco un soldato mi ha passato il telefono e un agente del FSB (l’ex KGB) mi ha detto di girare a largo prima che mi venga a prendere. Fortunatamente lo stesso soldato mi ha accompagnato pochi chilometri più in la e fatto attraversare un’area che per aggirare avrei dovuto percorrere 300km.

 

  1. L’incontro che ti ha segnato di più?

L’ultimo grande incontro, è forse stato il più importante. Una famiglia ucraina mi raccolto mentre facevo autostop in mezzo le campagne ucraine perché la batteria della moto aveva deciso che doveva abbandonarmi a 3000km da casa. Sono stati gentilissimi, per 5 ore mi hanno aiutato, vagando con me per paesetti sperduti alla ricerca di una batteria che potessi usare. Una gentilezza inaspettata soprattutto per il fatto che usassimo Google Translate per comunicare dall’Inglese al Russo. La soluzione è stata due batterie di scooter collegate in parallelo attaccate con lo scotch. Fortunatamente la Royal Enfield possiede il pedale di avviamento, elemento senza il quale sarei ancora a vagare per le steppe ucraine non avendo le batterie abbastanza spunto inziale.

 

  1. Cosa hai imparato su di te?

Ho preso coscienza fino in fondo del fatto che sono una persona profondamente disturbata e che ho un profondo bisogno di questo tipo di esperienze fortissime, vere, fatte con poco, in luoghi unici al mondo. Ci sarà tempo per visitare l’Europa e le città d’arte quando sarò più in là con gli anni. Ora è il tempo di attraversare i deserti, le montagne, le steppe. A proposito di Steppe, la prossima avventura non poteva che essere il Mongol Rally fatto con una Jeep Willys della seconda guerra mondiale che sto restaurando da solo.

Scherzi a parte, quello che ho imparato è stata la necessità di guardare sempre oltre gli stereotipi e guardare, soprattutto le persone con un sorriso. Un volto sorridente apre infinite porte anche nei luoghi più inaspettati. Certo, brutte esperienze possono sempre capitare, ma l’ipotesi che si presentino non spingeranno mai a non intraprendere qualche avventura.

  1. A chi consigli questo viaggio?

A tutti quelli che hanno 3 mesi di tempo e che siano appassionati di umanità. Ovviamente uno spirito dell’avventura eccezionalmente alto è richiesto. Dormire tutte le notti in tenda o con l’amaca ai bordi della strada può essere forse eccessivo per qualcuno. Mi raccomando però che sia una moto come una Royal Enfield, pezzi per BMW non si trovano nemmeno vendendo l’anima.

A nessuno che ci tiene alla propria pelle.

Psicologa e Viaggiatrice. Giro il Mondo e studio la personalità dei viaggiatori! Ho visitato più di 75 paesi molti dei quali da sola. Per me il viaggio è uno strumento di crescita personale. Ho creato questo sito per tutti quelli che amano viaggiare da soli o che vorrebbero iniziare a farlo. Ho pubblicato: Il Bello di Viaggiare da Soli: guida al travel coaching per ottenere il massimo da noi stessi edito Feltrinelli.

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